un film di Massimiliano Melis e Marcello Tedesco
progetto a cura di Gabriele Tosi
Il film è stato interamente realizzato a LOCALEDUE nel mese di maggio 2015. Tra il disallestimento della personale Folding Studio di Niccolò Morgan Gandolfi e la personale jenga di Fabrizio Perghem.
proiezioni 30 e 31 maggio 2015
ore 20.30 /21.30/ 22.30
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Melis e Tedesco sperimentano in Pocket Pass il valore del video come testimone. Scelgono di farlo con un occhio ibrido e trasversale che non sposa in pieno le caratteristiche di uno specifico linguaggio filmico. Pur accettando la commissione di LOCALEDUE di girare un film che potesse registrare le attività dello spazio e indagarne le attitudini, il loro prodotto non è quindi propaganda di alcuna idea o intento del committente. Piuttosto ne descrive dinamiche e potenzialità. Ne registra, diversamente da ciò che è abituale fare, la sottostruttura piuttosto che la superficie.
In un luogo dove si fanno mostre, tra due eventi, c'è sempre un tempo tecnico in cui lo spazio è nascosto al pubblico. Sono i momenti dedicati alle installazioni, alle prove e ai disallestimenti. E' sfruttando questo tempo che l'esperimento genera una testimonianza obliqua e segna un'attività quotidiana capace di proiezioni mentali, astratte e potenziali. Come i momenti di vuoto sono necessari ad uno spazio per preparare una mostra, allo stesso modo sono utilizzati nel film per preparare l'occhio alla scena successiva. Sono ossessivamente replicati e moltiplicati in una loro versione assottigliata.
Il film porta a pensare che un motivo, scevro da politica e mercato, per cui lo spazio vuoto continua a resistere nel mondo delle esposizioni, non sia da ricercare nella sua capacità di avvalorare o sacralizzare oggetti; e nemmeno sia legato alla sua forza astrattiva. Se lo spazio vuoto resiste, è in quanto possibile riserva di un campo libero da indicazioni e pretesti.
Ecco che ciò che vediamo in Pocket Pass non è una serie di performance da leggere con gli strumenti dell'arte contemporanea. Piuttosto un ciclo di azioni, atte a far riemergere come un bisogno la ludica serietà con cui l'uomo è abile a votarsi all'espressione e alla curiosità. Per questo ogni simbolismo è assente. Per questo ogni atto appare come un'ambigua prova di un soggetto casuale. Di comparse che, appunto, hanno realmente bisogno di uno spazio non segnato per mettere in pratica le proprie pulsioni.
E' quindi l'azione l'unico strumento di narrazione messo in campo. Di fronte a questo la regia pratica un linguaggio espressivo che, autonomo e affrancato dalla realtà, rimarca la sua presenza artificiale e la esaspera nel montaggio. Due camere fisse emulano una sorta di schizofrenico sistema di sorveglianza, posto a salvaguardia di pavimenti e pareti piuttosto che di valori oggettuali e di pregiudizi. Ciò che succede non è incidentale, ma agli occhi delle camere appare quasi privo di interesse, al più un motivo di distrazione.
L'esperimento sul suono, che a causa del dominio del retinico potrebbe passare inosservato, segna ancor più dell'immagine il carattere dello spazio. Frequenze metalliche e industriali riecheggiano fino all'incomprensione in un piccolo luogo dove sopravvive il riverbero dell'hangar e della cattedrale. Anche attraverso ciò si amplifica, finendo per distruggerlo, quel potere per cui con l'immagine spesso si tenta di ricostruire la frammentarietà di eventi ed esperienze. In un esercizio che si pone come scopo quello di allenare spalle abbastanza larghe da considerare il sacrificio, l'inconcludenza, il rumore e l'insuccesso di ogni esperimento.
L'inizio e la conclusione del film, dove assistiamo al disallestimento di un'opera e a un'altra che sta per essere allestita, permettono invece di scorgere una necessità di rinunciare ai concetti, perché negativi rispetto alla fisicità dell'arte: dove è ancora la cosa, il materiale e l'oggetto, a prendere il posto dell'immagine e del mentale. (G.T.)